Bollettino ADAPT 19 aprile 2021, n. 15

In materia di apprendistato tanto si è scritto sulla disciplina legislativa della fattispecie e sulle normative che si sono succedute nel corso del tempo, dalla legge n. 25 del 1955 alle riforme degli Anni Duemila: la legge Biagi prima, il Testo Unico poi, infine il Jobs Act.

Molto meno è stato analizzato il ruolo delle relazioni sindacali e in particolare della contrattazione collettiva nella regolazione dell’istituto. La storia dell’evoluzione contrattuale sui temi della formazione dei lavoratori e dell’alternanza formativa d’altronde non ha mai trovato una collocazione adeguata e sistematica negli studi scientifici, ben più attenti a quei contenuti contrattuali oggetto delle lotte sindacali e intorno ai quali si giocava il vero dinamismo politico-contrattuale e si formava il consenso dei lavoratori.

Per l’originalità che ebbe al tempo (e mantiene tuttora), oltre che per il prestigio dell’autore, che sul tema dei contratti di lavoro con finalità formativa ha realizzato uno degli studi di riferimento nella dottrina giuridica italiana (P.A. Varesi, I contratti di lavoro con finalità formative, Franco Angeli, 2001, pp. 1336), merita di essere recuperato e conservato il contributo che Pier Antonio Varesi esattamente quarant’anni fa ha realizzato per la Rivista giuridica del lavoro e della previdenza dal titolo “L’alternanza studio-lavoro nella contrattazione e nella legislazione”.

Il saggio, che oggi può essere consultato tramite la Banca dati “Studi scientifici” della piattaforma web fareapprendistato.it curata dai ricercatori di ADAPT, realizza una panoramica completa dell’alternanza formativa e della formazione professionale in Italia alla data della sua pubblicazione, pochi anni dopo l’emanazione della Legge quadro in materia di formazione professionale (legge n. 845 del 1978), nel tentativo di ricomporre a unità i tanti frammenti  normativi che regolavano l’incontro tra formazione e lavoro. Un incontro che, come segnalato in apertura dell’articolo, può avere almeno tre declinazioni, a seconda del tempo in cui si svolge e della finalità per cui si realizza.

A livello di formazione iniziale, innanzitutto, il lavoro può entrare nel percorso scolastico, in un’alternanza tra il tempo di studio e il tempo del lavoro da intendersi come «metodo didattico» (p. 205), in un rapporto per il quale il lavoro è funzionale all’acquisizione di competenze e conoscenze. All’esterno del circuito scolastico, invece, l’alternanza formativa può ritrovarsi nei diversi percorsi di transizione dei più giovani verso il mondo del lavoro, predisposti per il perfezionamento delle competenze del giovane e l’inserimento nel contesto aziendale: è il caso dell’apprendistato ovvero del contratto di formazione e lavoro introdotto dalla legge n. 285 del 1978. Anche i lavoratori adulti, infine, possono essere coinvolti in azioni formative nell’ambito della formazione permanente utile alla ricollocazione, della formazione continua svolta durante l’orario di lavoro ovvero dell’esercizio del diritto allo studio di ciascun lavoratore.

La formazione dei lavoratori adulti ha dei solidi ancoraggi agli articoli 2, 3, 4, 34 e 35 della Costituzione perché, come sottolinea l’Autore, l’approfondimento delle proprie conoscenze culturali e tecnico-professionali diventa mezzo primario ed indispensabile di promozione umana e sociale. Lo stesso non può dirsi per l’alternanza formativa intesa come strumento didattico che, «pur non trovando alcun ostacolo formale, non viene incoraggiata». In questa deficienza della Carta costituzionale, rileva Varesi, si trovano in nuce le resistenze culturali che hanno causato il «progressivo distacco della scuola statale dal sistema produttivo» (p. 205). Un distacco che tipicamente è imputato all’autoreferenzialità del sistema scolastico o alla tepidezza delle aziende ma che invece Varesi non ha timore nel ricondurre anche all’«atteggiamento delle parti sociali» (p. 205), soprattutto, come si vedrà, per quanto riguarda l’apprendistato.

Il giudizio è tanto netto quanto originale. Non perché le parti sociali, il sindacato in primis, abbiano trascurato il tema dell’apprendistato. Sono di quegli anni, ad esempio, lo studio “Apprendistato: abolizione o riforma?” (G. Sarchielli, G. Mazzotti, M.G. Mercatali, Apprendistato: abolizione o riforma?, E.S.I, Roma 1976) commissionato dalla CGIL o la ricerca “La contrattazione collettiva per la formazione dei lavoratori” (M. Polverari, A. La Porta, La contrattazione collettiva per la formazione dei lavoratori, Nuove Edizioni operaie 1976) realizzato dallo IAL – Istituto della Cisl per la formazione professionale. Eppure lo sguardo con il quale il sindacato ha trattato l’apprendistato, ed altri strumenti dell’alternanza formativa come il tirocinio, è sempre stato, e lo è tuttora in quelle poche occasioni in cui si approccia al tema, rivolto esclusivamente alla precarietà della condizione dell’apprendista e del tirocinante. In uno sforzo di uniformare o almeno approssimare il trattamento contrattuale del giovane a quello dei lavoratori ordinari, per comprensibili esigenze di contrasto agli abusi datoriali, è stata sottovalutato la dimensione formativa dell’istituto.

Il contratto di apprendistato, come ricorda Varesi, aderendo all’orientamento interpretativo già consolidatosi in quegli anni, ha una causa mista, nel quale la retribuzione assume «un carattere complementare rispetto al processo formativo» e «pur concedendo poco ad affascinanti utopie (circoscritta com’è all’elevazione professionale del giovane lavoratore), rappresenta il più consistente intervento legislativo per la formazione di lavoratori in costanza di rapporto (p. 218219). Invece le parti sociali avrebbero dato un’interpretazione «restrittiva» della legge e dell’istituto. «Furono infatti la disciplina regolamentare e soprattutto la contrattazione collettiva – si legge inequivocabilmente a pagina 219 – a trasformare profondamente l’istituto, declassandolo da momento di formazione a strumento di rapido addestramento».

Nelle poche occasioni in cui la contrattazione interveniva a regolare l’apprendistato, cioè soltanto nel 36% dei casi, come emerge da una rara mappatura del tempo (M. Polverari, A. La Porta, op. cit.), il sindacato anziché imporre il rispetto degli oneri formativi, nel tentativo di adeguarsi al diffondersi delle lavorazioni in serie, finisce per adeguarsi all’esistente, operando per un superamento di fatto dell’istituto.

«L’impronta restrittiva – prosegue Varesi sempre a pagina 219 – si manifesta in particolare nella regolamentazione di temi rilevanti quali i meccanismi per l’acquisizione della qualifica, la ripartizione dell’orario di lavoro fra addestramento pratico e studio e la durata massima del periodo di tirocinio, e da cui emerge fortemente ridimensionata la centralità dello studio e, di conseguenza, del sistema dell’alternanza». Fissata dalla legge a cinque anni, la durata massima del tirocinio veniva sistematicamente ridotta dai contratti collettivi (spesso sulla base del titolo di studio o dell’età dell’apprendista). Tra i diversi metodi adottati per le prove, da anni prevaleva l’attribuzione “automatica” della qualifica per capacità tecnica accertata dal datore di lavoro durante l’attività formativa.

In generale, veniva tradita l’esigenza di ricondurre l’istituto nell’ambito degli strumenti di formazione professionale e di offrire, almeno a una parte del mondo produttivo, di un istituto che valorizzi l’azione formativa dell’impresa e le parti sociali, almeno in materia di apprendistato, sono venute meno (ieri, ma potrebbe dirsi anche oggi) al loro ruolo istituzionale di partecipazione e concorso della formazione dell’offerta di lavoro nel mercato di lavoro.

Giorgio Impellizzieri
Scuola di dottorato in Apprendimento e
innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
@giorgioimpe