Bollettino ADAPT 2 novembre 2020, n. 40

Le categorie concettuali con cui la rappresentanza pensa all’apprendistato sono determinanti per la concreta regolazione di questa delicata componente del mercato del lavoro. Sono categorie, inevitabilmente, storiche: se non adeguatamente approfondite e comprese con sguardo critico rischiano di riproporre, oggi, logiche e schemi propri di contesti socioeconomici ormai superati. E questo può forse aiutare a comprendere il mancato decollo dell’apprendistato nonostante le attese che hanno accompagnato le numerose e recenti riforme dell’istituto, dalla legge Biagi sino al Jobs Act. Per aiutare la stessa rappresentanza a ripensare l’apprendistato è quindi utile ripercorrere la storia di questo rapporto: un testo particolarmente interessante per farlo è Industrial Relations. A marxist introduction di Richard Hyman, Professore Emerito di Relazioni Industriali presso la London School of Economics and Political Science.

Primo e fondamentale punto di avvio del testo di Hyman è l’inquadramento delle relazioni industriali all’interno del più ampio orizzonte dei rapporti sociali di produzione. L’obiettivo fin da subito dichiarato è infatti quello comprendere questo specifico fenomeno nella cornice del pensiero marxista. Alcuni studiosi, come Flanders, limitavano gli obiettivi delle relazioni industriali alla “job regulation”: ma inquadrare le relazioni industriali come sistema di regolazione dei rapporti di lavoro significa già, secondo l’autore, riconoscerne una funzione esclusivamente dedicata al mantenimento dell’ordine sociale e della libertà d’impresa.

Tale impostazione tradisce l’accettazione del sistema capitalistico in quanto tale, di un sistema cioè basato sulla inevitabile contrapposizione tra una massa (meglio: di una classe) di salariati, da una parte, e il capitale stesso, dall’altra, nella quale le relazioni industriali si pongono come mero mezzo di regolazione delle condizioni di lavoro. Secondo l’autore, invece, l’attenzione va posta sui meccanismi che permettono il controllo della struttura stessa delle relazioni di lavoro: così inteso, lo studio delle relazioni industriali ha necessariamente a che fare con elementi apparentemente esterni la “sola” regolazione del lavoro, arrivando piuttosto a ricomprendere il ruolo dei lavoratori all’interno della società contemporanea, la struttura contraddittoria dei conflitti tra capitale e lavoro, il fine stesso della produzione. Ben si comprendono, allora, le critiche di Hyman rivolte a quegli autori che riducono le relazioni industriali a confronto e regolazione dei rapporti di lavoro: perché danno per presupposto, e quindi tacitamente accettano, tutti quei rapporti sociali ed economici che vanno poi a determinare la specifica condizione del lavoratore stesso.

La vera “categoria” con la quale pensare le relazioni industriali è allora quella di potere, così definito: «La capacità di un individuo o di un gruppo di controllare il suo (loro) ambiente fisico e sociale; e, come parte di questo processo, la capacità di influenzare le decisioni che sono o non sono prese da altri» (p. 26). È quindi nella natura del potere che agita le relazioni industriali che andrà inquadrata l’analisi di queste ultime, nel tentativo cioè di comprendere, al di là delle singole lotte per salario, orario di lavoro, tutele, come le relazioni industriali possono essere forze trasformative della società stessa, e non semplici meccanismi di mantenimento dell’ordine sociale ed economico.

E grazie alla categoria di potere è possibile anche approfondire il tema dell’apprendistato, che l’autore affronta analizzando i diversi modelli di sindacato (trade union). Hyman ricorda che sono tre le categorie di Unioni tipiche della storia del sindacato inglese: craft unionsindustrial unionsgeneral unions. Le prime sono organizzazioni di lavoratori qualificati, su base occupazionale e a partire dalla condizione di un determinato set di conoscenze e competenze tecniche specifiche; le seconde si concentrano invece in un unico settore produttivo, accogliendo però tutti i lavoratori di quel settore; e infine le terze raggruppano lavoratori indifferentemente dalla loro occupazione e settore produttivo.

Hyman si concentra quindi su una breve ricostruzione storica delle origini del sindacato inglese: «Le prime unioni (molte risalenti al diciottesimo secolo) erano società e associazioni locali di artigiani o “circoli commerciali” (trade club)» (p. 43). All’origine di questi movimenti c’erano associazioni spontanee e spesso informali di lavoratori, accomunati dal rispetto di una comune “tradizione occupazionale” (spesso risalente al periodo preindustriale), cioè dall’appartenenza ad un mestiere. I loro scopi andavano dalla promozione della socialità tra i membri, all’assistenza in caso di malattia e vecchiaia, alla difesa nei confronti di imprenditori e di altri lavoratori non qualificati. Molte di queste realtà ebbero vita breve, non essendo in alcun modo strutturate o organizzate al di fuori della cerchia dei membri fondatori, altre invece riuscirono a svilupparsi e crescere negli anni. Quest’ultime sono quelle che più rassomigliano alla categoria di craft union, basate sul principio del controllo unilaterale: «Un sindacato di mestiere (craft unionism) efficace era fondato sul principio del controllo unilaterale. Il sindacato si riservava il diritto esclusivo di determinare le regole del mestiere (di solito basandosi sulla sua interpretazione della prassi tradizionale) e le tariffe salariali, e di farle rispettare attraverso i propri membri» (p. 44).  Alla base di queste realtà vi era il controllo dell’accesso al mestiere (craft), regolato attraverso l’apprendistato: questo monopolio della domanda li metteva in una posizione di particolare forza nei confronti dell’imprenditore, e ne demarcava con chiarezza i confini di appartenenza.

Due sono i fattori che determinarono la crisi di questa rappresentanza “esclusiva”: lo sviluppo del management scientifico, che desiderava controllare unilateralmente l’organizzazione del lavoro, e la costruzione di un mercato del lavoro su scala nazionale, che tolse potere e centralità ai territori come fulcro e baricentro per la regolazione dei rapporti di lavoro. Per riacquisire forza, queste realtà si dovettero quindi aprire ed unire ad altre associazioni di mestiere, formando associazioni più ampie, mantenendo comunque un controllo unilaterale sulla regolazione dell’apprendistato e sulla demarcazione dei confini settoriali, scendendo invece a compromessi per quanto riguarda salario e orario di lavoro. Queste craft unions, rimasero, comunque, verticalmente chiuse, andando cioè a riguardare solo determinati lavoratori, rappresentandone le competenze specifiche: è il caso delle “aristocrazie del lavoro”.

Fin dalla fine dell’800 vi è stato un declino di questo modello di rappresentanza, tipico delle craft unions, per due motivi: una serie di shock economici e la seconda rivoluzione industriale, che permise a tanti lavoratori semi qualificati o anche senza competenze di svolgere mansioni a cui prima erano destinatari esclusivamente i membri del “mestiere”. Anche in questo caso, Hyman mette in guardia da semplici riduzionismi storici: attraverso specifici esempi, l’autore mostra come effettivamente alcune realtà ancora legate alla tradizione del mestiere furono distrutte dall’emergere di nuovi metodi produttivi, che resero necessaria una rappresentanza non più basata sul mestiere (è l’esempio dei calzolai), mentre altre riuscirono a resistere e a mantenere i propri privilegi, tra cui la regolazione dell’apprendistato come strumento di accesso e tutela del lavoro degli operai adulti (è il caso della stampa e del sindacato dei tipografi). Questo passaggio è pero cruciale: l’apprendistato in questo nuovo contesto socioeconomico non ha uno scopo formativo, ma rientra tra le strategie sindacali di tutela dei lavoratori (adulti): «Entro la fine del XIX secolo, i cambiamenti tecnici avevano ridotto lo status dell’apprendistato a strumento unicamente utile all’accesso al mestiere» (p. 49).  Si aprì quindi una possibilità di integrazione verticale, di accesso al mestiere regolato secondo criteri gerarchici e organizzativi, e non tanto formativi e socioeducativi.

Queste aperture “verticali” favorirono poi la nascita e la diffusione di una rappresentanza di settore (industrial), più che di mestiere. Semplificando, ancora una volta, si potrebbe dire che i due modelli di sindacato (craft e industrial) contrappongono un’apertura orizzontale e chiusura verticale, il primo, ad una apertura verticale e chiusura orizzontale, il secondo. A questi due modelli si aggiunge un terzo, un modello di sindacato aperto sia orizzontalmente (tra settori) sia verticalmente (tra diverse occupazioni), unito dalla comune lotta nei confronti dell’impresa capitalistica, contraddistinto dall’accorpare i salariati in quanto tali. Anche se questa “unione delle unioni” non vide mai luce, Hyman riconosce a questa ideologia (quella delle general union) la forza di aver indirizzato la stessa storia del sindacato inglese, nella direzione di una maggior apertura basata sulla comune appartenenza alla classe dei salariati. Spesso poi l’apertura delle “nuove” unioni era dovuta all’estrema mobilità dei lavoratori tra settori, e all’assenza di una “coscienza”, di una “appartenenza”, industriale.

A seguito di questa ricostruzione storica (e semantica), l’autore presenta la seguente definizione: «Un sindacato è, prima di tutto, un’agenzia (agency) e un medium del potere. Il suo scopo principale è quello di consentire ai lavoratori di esercitare, collettivamente, il controllo sulle loro condizioni di lavoro, potere che non possono sperare di possedere come individui; e lo fanno in gran parte costringendo il datore di lavoro a tenere conto, nel processo decisionale e politico, di interessi e priorità contrari ai suoi» (p. 64). Gli interessi di imprenditori e lavoratori sono strutturalmente contrapposti: il sindacato è allora quella forza in grado di esercitare un potere collettivo sulla controparte. Come ricordato più sopra, Hyman critica un certo tipo di sindacato, che si limita ad incardinarsi all’interno dei rapporti di produzione (e quindi di potere) tipici della società capitalistica, proponendo ancora una volta una breve ricostruzione storica: in origine la rappresentanza nasceva dal basso, spesso spontaneamente e all’interno di circoli informali. Lo stesso apprendistato «Serviva non solo per formare il giovane artigiano in una serie di abilità lavorative, ma anche per inculcare un insieme di credenze e valori che ruotavano attorno al valore, alla dignità, alle tradizioni e alla solidarietà del mestiere» (p. 69), aveva cioè uno scopo socioeducativo e non solo occupazionale. Secondo l’autore, la rappresentanza – e le relazioni industriali di conseguenza – dovrebbero arrivare a mettere in dubbio la stessa struttura capitalistica. Criticando nuovamente Flanders, l’autore sottolinea con forza che «Se i sindacati devono accettare il modello produttivo capitalistico – la struttura della proprietà privata, le priorità economiche e l’autorità manageriale – allora ci si può aspettare che forniscano nient’altro che una gamma limitata di miglioramenti nella situazione del lavoratore» (p. 85). L’ambizione del sindacato dev’essere invece quella di intervenire mettendo in crisi gli stessi presupposti del sistema capitalistico, agendo in modo innovativo e senza replicare schemi del passato: secondo Hyman, un certo tipo di appartenenza “di mestiere” sembra quindi non esser altro che un residuo di un sistema socioeconomico passato, che se oggi riproposto altro non farebbe che alimentare il gioco del capitale, accentuando divisioni all’interno della classe dei lavoratori.

Concludendo, l’autore riconosce ancora una volta che il conflitto industriale è nella natura stessa della società capitalistica. L’origine delle relazioni industriali è da rintracciare nel conflitto tra salariati e datori di lavoro. E così afferma: «Una comprensione sistematica delle relazioni industriali – cioè dei processi di controllo dei rapporti di lavoro – punta inevitabilmente a un’unica conclusione. Solo una trasformazione totale dell’intera struttura di controllo e potere, ad un livello che trascende le definizioni convenzionali restrittive delle relazioni industriali, può risolvere le attuali contraddizioni all’interno dell’organizzazione del lavoro e nella vita sociale ed economica più in generale» (p. 203).

Il rapporto tra rappresentanza e potere è utile quindi per meglio comprendere le trasformazioni dell’apprendistato. Infatti, le craft union già ricordate erano un modello di rappresentanza che basava il proprio potere sulle competenze possedute e sul monopolio della domanda di lavoro. In questo senso, tale potere era esercitato soprattutto nei confronti degli esclusi, cioè di coloro che non accedevano al mestiere. Al contrario, le altre forme di rappresentanza richiamate dall’autore esercitavano il potere in netta contrapposizione all’imprenditore, in una continua dialettica che è propria del sistema capitalistico stesso, basando il loro potere sull’aggregazione di diversi interessi a partire dalla comune, e quasi ontologica, condizione di lavoratori subordinati. Il potere non è più nel “mestiere”, ma nella “classe”. Tale cambiamento determina una trasformazione anche dello stesso apprendistato: da strumento per la regolazione dei mestieri, basato sulla condivisione all’interno di un gruppo (chiuso) di lavoratori di conoscenze, competenze e tradizioni e di loro tutela e difesa, si “riduce” a terreno di lotta sindacale tra la classe dei salariati e il capitale, inquadrato quindi nel più ampio orizzonte della difesa dei lavoratori “standard”, pensato cioè in termini esclusivamente economici (e non più formativi e sociali) a partire dalla categoria – astratta – del lavoratore adulto.

Matteo Colombo

ADAPT Junior Fellow

@colombo_mat