Bollettino ADAPT 12 ottobre 2020, n. 37

La storia dell’apprendistato è strettamente connessa a quella della rappresentanza: dalle corporazioni di arti e mestieri dell’Europa preindustriale, fino all’attuale protagonismo di cui godono, in molti Paesi europei e non solo, le parti sociali nella regolazione e progettazione dei percorsi di relativi percorsi formativi. È quindi interessante provare a ricostruire le dinamiche sottese a tale rapporto, a partire dall’approfondimento di quei contesti storici nei quali nuove forme di rappresentanza hanno determinato la trasformazione dello stesso apprendistato. La prima rivoluzione industriale è, in particolare, un momento cruciale: è possibile analizzare le tensioni che hanno abitato questi due poli a partire dalla lettura di un “classico” del lavoro, la Storia delle Unioni Operaie in Inghilterra di Sidney e Beatrice Webb.

Elemento centrale nell’opera dei coniugi Webb è la definizione di “unione operaia”. Con essa, gli autori intendono «un’associazione continua di salariati allo scopo di mantenere o migliorare le condizioni del loro impiego» (p. 27). Subito dopo aver introdotto questa definizione, si concentrano sull’identificazione delle similitudini e differenze tra questa “nuova” forma di rappresentanza, apparsa in Inghilterra sul volgere del XVIII secolo, e le precedenti gilde, o corporazioni di mestieri, diffuse nell’epoca medievale e moderna. Secondo gli autori, sono cinque, in particolare, gli elementi che distinguono la rappresentanza “industriale” dalla precedente, e che fanno propendere la loro ricostruzione storica a favore dell’identificazione di una forte discontinuità tra le logiche e gli obiettivi delle gilde, da una parte, e delle unioni operaie, dall’altra.

Un primo elemento è di stampo socioeconomico. Il lavoratore che svolgeva l’apprendistato presso la bottega del maestro apparteneva alla stessa classe sociale, o comunque poteva aspirare, un giorno, a ricoprire lo stesso ruolo del maestro. Nella società industriale tale contiguità si spezza a favore di un’infinita lontananza tra lavoratori e imprenditori, tra salariati e capitalisti: non sarà più possibile anche solo immaginare, per il semplice operaio, di diventare un giorno egli stesso capitalista e proprietario d’industria. Gli autori riconoscono che, però, le gilde non rappresentavano solamente i mestieri artigiani e cittadini, ma ve ne erano alcune che riunivano assieme i lavoratori che rimaneva spesso nella condizione di “journeymen”, non avevano cioè un limitato orizzonte urbano di esercizio del loro mestiere, ma anzi viaggiavano per tutto il paese, offrendo i loro servigi. È l’esempio della gilda dei muratori. Quale la differenza, in questo caso, tra gilde e unioni operaie? I muratori, nel contesto preindustriale, possedevano gli strumenti e i mezzi per lavorare in autonomia e si relazionavano direttamente con il cliente, nel contesto industriale invece lavoravano tramite subappalti e secondo una logica di rigidi controlli. Anche nel caso, quindi, di gilde non-urbane, è la figura dell’artigiano, e quindi piuttosto del piccolo imprenditore, ad essere rappresentata, non quella del salariato: il secondo elemento di differenza, quindi, è una subordinazione giuridica prima che economica e che è propria dell’operaio moderno che anima l’unione.

Inoltre, il membro tipico di una gilda era un maestro: colui che, in un certo qual modo, “dirigeva” e controllava la bottega, pur lavorandovi in prima persona. È infatti solo al termine del periodo di apprendistato e dell’eventuale successivo periodo di journeymanship che il lavoratore poteva essere accettato nella gilda, appunto come maestro. I due aspetti coincidevano. Invece, nelle unioni operaie, il lavoratore che vi partecipava era sempre il lavoratore a cui mancavano tutte le conoscenze e abilità che invece erano incarnate nella figura del maestro, e che erano proprie, piuttosto, di quella dell’imprenditore. Il terzo elemento che distingue gilde e unioni operaie è quindi legato alle specifiche competenze e conoscenze proprie dell’appartenente a queste realtà di rappresentanza: nel primo caso, quelle delle gilde, i maestri erano coloro che conoscono il mestiere e sapevano dirigere la bottega; nel secondo, quello delle unioni operaie, erano i lavoratori “sottomessi” all’imprenditore capitalista, le cui conoscenze non andavano oltre a quanto richiesto per lo svolgimento delle proprie mansioni.

Quali interessi venivano rappresentati? Secondo gli autori, le gilde del periodo preindustriale rappresentavano gli interessi di tre classi distinte nella società moderna: il capitalista imprenditore, il lavoratore manuale, il consumatore. La unione operaia rappresentava una classe, quella dei lavoratori manuali, inevitabilmente contrapposta a quella dei capitalisti, dato l’abisso creato tra le due dai nuovi mezzi produttivi e (soprattutto) dalle trasformazioni socioeconomiche. È questa condizione di “salariati tutta la vita”, antecedente di almeno un secolo la rivoluzione industriale, ad essere un fattore determinate e caratterizzante il sorgere delle unioni operaie in Inghilterra. L’esempio tipico è quello del settore tessile, nel quale il lavoro a domicilia e il c.d. putting out system avevano già da tempo implementato la divisione del lavoro auspicata da Adam Smith, lasciando ai lavoratori i mezzi di produzione ma di fatto privandoli di ogni possibile iniziativa economica autonoma diversa da quanto richiesto dal capitalista-commerciante. In questa dipendenza gli autori rintracciano, come già ricordato analizzando il terzo elemento di discontinuità, un tratto caratterizzante il sorgere delle unioni operaie. Il quarto fattore tipico delle unioni operaie è quindi la rappresentanza degli interessi di una specifica classe sociale, quella del lavoratore manuale subordinato.

Il quinto e ultimo elemento ci permette di comprendere la connessione con l’apprendistato. Già alla fine del XVIII secolo questo era pensato e concretamente utilizzato, in Inghilterra, quale strumento per l’accesso al mercato: da una parte gli imprenditori non volevano rispettare alcun limite nell’assunzioni di apprendisti, con l’obiettivo di impiegare un’ampia manodopera minorile e quindi abbassare il costo del lavoro, dall’altra le unioni operaie cercavano di limitarne il numero per proteggere, in prima battuta, i loro salari. In Inghilterra (caso unico a livello europeo) le leggi sull’apprendistato erano fissato da norme statali. Così era anche per altri istituti lavoristici. Nel 1776, però, il Parlamento non volle nemmeno ascoltare le richieste di alcuni lavoranti della lana che chiedevano la rivisitazione di alcune tariffe e la non introduzione di una nuova macchina filatrice: inaugurando quindi quell’approccio lasseiz faire tipico della mentalità inglese. Se precedentemente il numero degli apprendisti era fissato per le legge, la “nuova” rappresentanza si intesta l’onere di regolarne l’accesso al fine di proteggere i salari dei lavoratori. Ma la nuova logica produttiva, in serie e finalizzata alla creazione di grandi volumi di beni, rendeva impossibile – a detta degli imprenditori – il mantenimento delle rigide norme di derivazione delle gilde e riguardanti gli apprendisti. Le pressioni di quest’ultimi determinarono, nel 1814, l’abrogazione dello Statuto degli Artificieri, la legge statale di regolazione dell’apprendistato. A quel punto l’apprendistato, sganciato dalla giurisdizione statale, diventava quindi terreno di contesa tra imprenditori e unioni operaie. Possiamo quindi richiamare questo elemento quale quinto e ultimo fattore di distinzione tra gilde preindustriali e unioni operaiese le prime ricorrevano all’apprendistato quale strumento di accesso al mestiere e di formazione dei giovani, socialmente riconosciuto nel suo valore, le secondo vi ricorrevano quale meccanismo per tutelare il reddito dei lavoratori adulti contro l’abuso dello stesso apprendistato, utilizzato solo per l’acquisizione di (giovane, quando non giovanissima) manodopera a basso costo.

Secondo gli autori sono quindi numerosi gli elementi di discontinuità tra la quella che era la rappresentanza nel periodo precedente il sorgere la società industriale e quella successiva. E, come si è potuto notare, alcuni riguardano direttamente la regolazione e l’utilizzo dell’apprendistato. Nei primi anni dell’800 si diffondono infatti le proteste dei lavoratori legate alla moltiplicazione degli apprendisti a danno dei lavoratori salariati adulti. L’apprendistato è proprio uno dei terreni sui quali si combattono le prime avvisaglie tra unioni operaie e imprenditori. Le ragioni, come già ricordato, sono di natura prettamente economica, legate alla tutela di quelle “condizioni di vita” richiamate dalla definizione di unione operaia accettata dagli autori.

Immaginare che, però, dal XIX secolo si organizzi una polarizzazione tra imprenditori e salariati, e che tra questi due poli si sia iniziata una guerra senza quartiere, vorrebbe dire dimenticare l’esistenza e la persistenza di quella che gli autori chiamano “l’aristocrazia del lavoro”: la presenza, cioè, di lavoratori qualificati e dotati di competenze che li mettevano in una condizione di particolare forza nei confronti degli imprenditori, e che li separavano allo stesso tempo dai comuni operai manuali. È questa aristocrazia che si intesta la “battaglia dell’apprendistato”, a tutela dei saperi che continuavano ad essere così trasmessi, pur nel nuovo contesto industriale. I loro regolamenti divennero ancora più rigidi nel XIX secolo, date le pressioni a cui erano sottoposti, e spesso ebbero ragioni delle volontà industriali.

Gli autori identificano nella fase storicamente successiva a questo primo sorgere dell’unionismo, quella che va dal 1829 al 1842, come la fase “rivoluzionaria” delle unioni operaie, agitate da ideali socialisti e miranti non a formare “aristocrazie del lavoro”, ma trades unions, unioni di mestieri, al plurale: unire la classe operaia contro il potere capitalistico. Lo spettro dell’”unione operaia generale” spaventava la stampa e la classe dirigente. Ma gli ideali solidaristici alla base di questo ambizioso progetto sindacale si infransero contro la concreta difficoltà di coordinare milioni di lavoratori e contro l’emergere di tanti, e parziali, conflitti locali. Alcune unioni, ad esempio quelle degli operai abili (“qualificati”) delle industrie tipografiche e meccaniche, l’”aristocrazia” a cui prima si faceva riferimento, si tennero in disparte rispetto ai progetti social-rivoluzionari di un’unica unione generale dei lavoratori contro l’oppressione capitalistica, a riprova della complessità e della frammentarietà del movimento.

Il “secondo periodo” coincide, nella ricostruzione degli autori, con gli anni 1843-1860. La logica della rappresentanza cambiò nuovamente: «Lasciando da parte ogni progetto di rivoluzione sociale, essi si misero risolutamente a lottare contro le peggiori tirannie legali ed industriali che pesavano su di loro, edificando lentamente a questo scopo organizzazioni che sono divenite parti integrali della struttura di uno stato industriale moderno» (p. 161). Le unioni operaie si diedero una struttura organizzativa, economica e finanziaria ben più solida rispetto al periodo precedente, costruendo anche gerarchie che andavano dalle sezioni locali a quelle nazionali. Anche in questo secondo periodo, comunque, uno degli appelli tipici delle unioni ed elemento cardine della politica operaia è la limitazione del numero degli apprendisti. Sul punto si scagliarono, in Parlamento, più volte gli stessi imprenditori, che ricordavano come «Il numero degli apprendisti, come del resto tutta la direzione dell’industria, «erano questioni d’ interesse privato dell’imprenditore, la cui definizione gli apparteneva esclusivamente e nelle quali nessuno, e tanto meno poi gli operai, avevano nulla a che vedere»» (p. 234). L’apprendistato rimase nell’orizzonte della politica sindacale quale strumento economico per la regolazione dell’accesso ai mercati interni: la dimensione sociale e formativa, propria del periodo preindustriale e in parte mantenuta dalle “aristocrazie del lavoro”, venne definitivamente meno.

In conclusione, e senza ripercorre oltre la dettagliata ricostruzione storica svolta dai coniugi Webb, è possibile quindi individuare almeno due momenti chiave per comprendere le complesse relazioni tra rappresentanza e apprendistato. Il primo coincide con la abolizione delle gilde e la diffusione delle unioni operaie, le quali rispondevano a criteri di rappresentanza differenti: le prime erano infatti un luogo di sintesi tra diversi interessi, quali quelli dei produttori, dei lavoratori, dei consumatori. È in questa logica che possono essere lette le diverse azioni a tutela della qualità dei prodotti, e gli investimenti in formazione per il superamento di asimmetrie informative. L’unione operaia rappresentava invece un interesse di classe, ponendosi dialetticamente in una posizione di contrapposizione con la controparte capitalistica: la separazione tra i due poli è tanto profondo da rendere impossibile una eventuale conciliazione tra gli stessi. L’apprendista diventava maestro, l’operaio non sarà mai imprenditore. Un secondo momento riguarda il venir meno anche di quelle che erano note come “aristocrazie operaie”, e il sorgere di una coscienza – ancora una volta – di classe, finalizzata a contrattare con l’imprenditore capitalista non uno scambio tra competenze e salario, come pur facevano le “aristocrazie”, ma unicamente tra tempo di lavoro e salario: in questo mutato contesto, la rappresentanza pensava all’apprendistato unicamente quale strumento per il controllo dei salari e il contrasto al lavoro minorile, senza più alcun tipo di relazione con quella “coscienza di mestiere” propria delle esperienze sindacali ricordate, venuta meno con il sorgere di una “coscienza di classe” che, anziché puntare alla valorizzazione delle competenze e conoscenze della singola persona, puntava piuttosto alla standardizzazione delle condizioni di lavoro e della relativa retribuzione.

 

Matteo Colombo

ADAPT Junior Fellow

@colombo_mat